06 dicembre 2008

Somewhere, over the rainbow

Il tempo non scorre sempre allo stesso modo. Probabilmente è un’affermazione banale, me ne rendo conto, ma non posso fare a meno di stupirmi ogni volta che mi capita di constatarlo.
La stessa sensazione di meraviglia la provo tutte le volte che mi capita di ritrovare qualcosa che pensavo dimenticato. Forse “dimenticato” non è l’aggettivo giusto, perché in realtà in questi casi non ho nemmeno la consapevolezza di aver perso per strada qualcosa.
Così accade che per gli strani accadimenti della vita, d’un tratto ci si ritrovi a confrontarsi con una versione di sé stessi datata di molti anni, con un ragazzo di cui si è perso il contatto da tempo.
Lo scorrere degli anni per qualche istante non sembra avere più lo stesso peso, la stessa consistenza, osservare a 35 anni qualcosa avvenuto vent’anni prima non sembra più limitato ad un vago ricordo di avvenimenti.

Da qualche parte, sopra l’arcobaleno.

Senza rendersene conto è come aprire un vaso di Pandora; lo stupore di fronte alla quantità interminabile di particolari che tornano alla mente, troppi anche solo per immaginare che potessero essere ancora così integri e numerosi. E quel ragazzo non è più qualcun altro, diventa improvvisamente una parte di te che è sempre rimasta lì. Sei tu, sei solo più vecchio, ma sei tu. Perché non è possibile che quel groviglio di immagini, sensazioni, volti, luoghi, sia in grado di colpirti così violentemente, tanto da domandarti se sia davvero tutto a posto, se non sia rimasto qualcosa in sospeso da allora.

Ho l’impressione che esista un meccanismo automatico della nostra mente che di volta in volta, al passare del tempo, impacchetti il nostro mondo, i ricordi, e li comprima mettendoli chissà dove. Nel mio lavoro lo chiameremmo il “Garbage Collector”. La verità forse è che non è vero che dimentichiamo il passato: dimentichiamo dove abbiamo messo il passato, ma lui è ancora lì, in qualche corridoio del nostro pensiero, in attesa semplicemente che prima o poi si torni nuovamente di fronte allo scaffale dove li abbiamo risposti.
Esattamente come le mie Smemorande datate fine anni ’80, inizi anni ’90. Sono sempre lì, da anni, in mansarda, nemmeno troppo fuori mano. Eppure tutte le volte che ci passo davanti, quelle poche che mi reco su all’ultimo piano di casa, non le degno nemmeno di uno sguardo, forse non le “vedo” nemmeno, come se ormai facessero parte dello sfondo, come un muro, i mobili, il soffitto. Eppure se le tocco, se le apro, esattamente come ho fatto oggi, mi rendo conto che sono ancora le stesse di allora. Riconosco me stesso in quelle pagine scritte, nonostante tutti questi anni, ma soprattutto ricordo come se fosse accaduto ieri il perché di ogni parola, gli avvenimenti, le persone.

Non sono andato molto avanti. Ma forse anche questa constatazione è sbagliata in partenza, perché parte del presupposto che sia strettamente necessario essere per forza andato avanti, senza nemmeno dare una spiegazione plausibile a che cosa significhi andare avanti. E poi perché deve essere necessario andare in una particolare direzione, perché non deve essere altrettanto giusto muoversi in altri sensi.
Forse mi ribello a questo stato delle cose perché in fondo non mi vedo così sbagliato a 16 anni, forse, come mi ha detto qualcuno, allora ero già più maturo della mia età anagrafica.
Non lo so, non sono nemmeno certo di credere a questo. Perché se fosse vero allora mi domando, senza riuscire a darmi una risposta, perché mi sento come se mi avessero dato uno schiaffo. Perché ho la netta sensazione di aver perso qualcosa, di non aver fatto tutto quello che avrei potuto fare, di essermi voltato prima di aver veramente fugato ogni dubbio.

La verità è che non ha senso provare a dare queste risposte, perché dopo vent’anni sarebbero le risposte di un trentacinquenne, e non quelle che mi sarei dato allora, e non ho nemmeno la sicurezza che quelle risposte me le sia già date da tempo, ma che semplicemente siano in qualche corridoio da cui non sono ancora passato.

Se però scavo più a fondo, scopro che tutto questo è legato al trovarsi di fronte, per la prima volta nella mia vita, qualcosa che torna dopo così tanto tempo, qualcosa che mi fa capire che di tempo ne è passato davvero molto, ed è una consapevolezza nuova, per qualcuno abituato per motivi anagrafici a pensare alla propria vita come ancora relativamente breve. Non ho più pensato ai miei 16 anni semplicemente perché per me erano ancora lì, dove sono sempre stati, come le Smemorande, ovvero qualcosa che avevo messo su uno scaffale qualche giorno prima.
Ed invece mi rendo conto che il tempo è trascorso con una velocità sorprendente, e, come in autostrada, ho la sensazione di essermi concentrato sulla striscia d’asfalto di fronte a me, sull’abitacolo e sullo stato di funzionamento dell’automobile, ma lo sfondo, tutto ciò che sta oltre l’autostrada, è passato come un caleidoscopio di colori al limitare del campo visivo.

Mi scopro così legato a quegli anni, alle persone che mi sono scelto come amiche, a quella timidezza che in qualche modo mi porto ancora dietro, e che a volte ha causato negli altri come una sorta di soggezione, e quanto mi fa sorridere questa rivelazione, io che mi sono sentito spesso come un idiota che non sapeva relazionarsi in maniera decente. Un ippopotamo in un negozio di cristalleria.

Da qualche parte, sopra ed oltre l’arcobaleno, c’è un luogo che è difficile da comprendere, perché il tempo ha un significato diverso, dove è persino difficile capire i sentimenti semplici ed immediati della vita quotidiana, perché non esistono la nostalgia o l’appagamento, il rimpianto o la soddisfazione, esiste qualcosa di più diretto che ti prende direttamente allo stomaco, lasciandoti però quella freschezza della primissima gioventù che rischia di essere dimenticata.

Forse avrei dovuto capire prima che è salutare farsi qualche giro in più per i corridoi della memoria, capirlo da quando ho un figlio e sono tornato in contatto con il me stesso di Sesto Fiorentino rivedendomi nel sorriso e nei giochi del bambino che ora dorme nell’altra stanza.